Zen e montagna

Zen e montagna. Un paragrafo del libro Un sapere sottile del maestro ch’an Sheng-Yen mi ha fatto riflettere sull’attrazione che molti praticanti sentono verso il paesaggio montano. Non per niente diversi templi sorgono in località di alta quota che garantiscono pace e silenzio, ad esempio il monastero zen di Berceto. La vita in un eremo è giustamente molto ambita dai praticanti di ogni sentiero spirituale (non solo zen).

Ecco dunque la citazione del maestro Sheng-Yen che, solo all’apparenza, può sembrare controcorrente:

Quando arriviamo alla terza fase del Percorso del Bodhisattva il picco più alto della montagna e la valle più profonda sono la stessa cosa. Pensate a questo: dal punto di vista di una persona che si trova su un satellite e guarda giù verso la terra, la cima più alta dell’Himalaya è un punto in basso […] Un Bodhisattva al terzo livello non ha sentimenti di gioia nè di sofferenza, ma il suo corpo percepisce sensazioni normali. Per esempio, se non ha mangiato avrà fame; se la temperatura è fredda o calda avrà la sensazione del freddo o del caldo, ma non ne sarà disturbato […]

Per la maggioranza di noi praticanti (che pertanto non siamo ancora alla terza fase del Percorso del Bodhisattva), l’ambiente/il paesaggio che accoglie il nostro sentiero spirituale può esserci o meno d’aiuto. In montagna (e con montagna intendo quella selvatica e non certo quella turistica) la pratica è di sicuro facilitata. I “disturbi” sono minori e i rituali che mettiamo in essere sono in sintonia con i ritmi della natura e la respirano a fondo.

A questo punto mi viene spontaneo pensare al percorso di addestramento dei cani. L’addestratore, prima di abituarli a un corretto comportamento in ambiente urbano, inizia ad addestrarli in situazioni tranquille, senza distrazioni, per procedere in seguito con situazioni a bassa distrazione e poi, ancora in seguito, a media e infine alta distrazione.

Quando si decide di addestrare la mente alla pratica zen penso che sia importante procedere con gradualità allo stesso modo con cui si addestrano i cani. La montagna selvatica è per il praticante il luogo ideale sia per lo zazen (meditazione seduta) sia per la meditazione in marcia in ogni singolo attimo del giorno. Non solo la mente non ha intorno a sè distrazioni, motivi di stress, sollecitazioni sensoriali disturbanti continue (pensate al caos e al rumore delle grandi città), ma si trova a praticare in un ambiente che gli dona ripetute piccole/grandi esperienze di Nirvana, di quiete, di bellezza, di estasi. La spiritualità in montagna è tangibile ovunque.

In montagna è possibile sperimentare il Nirvana come stato della mente successivo/conseguente all’Estasi (beatitudine) e al Satori (illuminazione): uno stato prolungato di quiete mentale particolarmente/completamente appagante in cui si vive il così detto contatto col cielo (la parte spirituale che è in noi e che, pur essendo in noi, percepiamo come esterna).

Gli assaggi di Nirvana donati dalla pace e dalla bellezza della natura aiutano i praticanti a procedere nel sentiero, finchè giungerà il momento in cui – come dice il maestro Sheng-Yen – il picco più alto della montagna e la valle più profonda saranno la stessa cosa, ed anche il caos e il rumore della città non avranno più il potere di distruggere la nostra quiete e il nostro zen.

Di certo la condizione mentale di calma e felicità assoluta vissuta in ambiente senza distrazioni è molto fragile. Ma esserne consapevoli è già un aiuto. Ogni volta che sarà inevitabile calarsi in situazioni a rischio, sarà importante essere molto vigili e intervenire subito al primo segno di disagio. A poco poco ci addestreremo a un sempre maggiore distacco dalle contrarietà. A poco a poco impareremo a vivere gli imprevisti indesiderabili senza lasciarci intrappolare. Cerchiamo solo di avere pazienza ed essere amorevoli con noi stessi, praticando con disciplina nella quotidianità.

A questo punto, concludo l’articolo con un brano tratto da Scrivere Zen e Satori creativo che mi sembra adatto al discorso:

Nulla è definitivo, certo, si può ricadere in trappola e perdere bellezza, calma e libertà da un momento all’altro; possiamo ri-complicarci la vita e ri-cadere in basso … la società attuale sta mirando a questo con un fucile di estrema precisione puntato su ognuno di noi, ma chi pratica lo Zen in modo autentico e consapevole sa, dopo la percezione del Satori, di avere raggiunto una “porta senza porta”, e questo lo rassicura. Non si tratta di una porta blindata! Nulla da scassinare, nulla di difficile. Se c’è una ricaduta, consideriamola passeggera … basta intervenire subito, cambiare registro, ritornare dalla terra al cielo. Ora sai cosa significa e sai come fare. Quando la vita ti dona le condizioni giuste al Satori, è tuo compito proteggerle e preservarle.

[…] quando si attraversa quella porta senza porta, si cammina liberamente tra cielo e terra.

Cerchiamo dunque di proteggere e preservare le condizioni esterne giuste per l’Estasi, per il Satori, per il Nirvana. E ogni volta che le condizioni esterne giuste non ci saranno, cerchiamo al più presto di ritornare ad esse. Non restiamo giù in basso! Proviamo subito ad elevarci nuovamente (e ognuno sa in che modo farlo) finchè un giorno la percezione muterà: non ci sarà più nè basso nè alto, nè monti nè valli, nè montagna nè città.

La frase conclusiva della citazione è tratta da La porta senza porta, Adelphi 1987 (libro consigliatissimo).

Che la vostra/nostra vita possa essere illuminata!

Leggi anche: Ryokan, monaco zen e Scrivere Zen e Satori creativo

Foto di wurliburli da Pixabay

Scrivere zen e romanzi

Scrivere zen e romanzi. Sembra qualcosa di incompatibile. La scrittura zen è immediata e “a sorpresa” per l’autore stesso, esce dalla penna nel “qui e ora” senza alcun ragionamento preliminare; la stesura di un romanzo richiede allo scrittore di seguire un filo logico ben preciso e di narrare una storia dall’inizio alla fine.

Quindi: come è possibile scrivere un romanzo in modalità zen?

Scrivere romanzi in modalità zen è qualcosa di totalmente diverso da ciò che istintivamente siamo portati a fare, cioè partire da un’idea e cercare di svilupparla in una trama, magari utilizzando un consolidato schema quinario che, dalla situazione iniziale, prevede un incidente che mette in moto la storia e, di seguito, un conflitto, una risoluzione e un finale.

Un tale modo di procedere non è zen.

Va inoltre detto che avere una buona idea da sviluppare non è così scontato e immediato. La buona idea può non esserci e allora non si inizia alcun romanzo. Stiamo parlando ovviamente di opere made by human.

Può inoltre capitare che una meravigliosa idea nata in un momento di “ispirazione” possa rivelarsi del tutto inefficace quando – forse giorni o mesi dopo – si decide di portarla sulla carta. Ci si accorge che concretizzarla in parole risulta difficile e non si riesce a capire il perchè.

La risposta è in questa citazione tratta da “Scrivere Zen e Satori creativo”:

A volte camminando per strada o correndo o sonnecchiando o in un qualsiasi altro momento vengono in mente delle cose e viene voglia di scriverle. Si inizia così a elaborare mentalmente un capitolo o un paragrafo prima di avere il foglio davanti. Poi, con il foglio davanti, ci accorgiamo di quanto sia difficile mettere sulla carta quell’idea sbocciata in precedenza. Nel frattempo le parole giuste sono sfumate e si tenta invano di riprodurle senza riuscirci; è evidente che sono tutta un’altra cosa: inefficaci. Ci siamo illusi di poterle conservare come le abbiamo pensate in un momento di grazia, ma non è così. Subito o niente, questa è la realtà. E non si tratta solo di memoria.

Con la carta davanti “è un altro momento”dice Natalie Goldberg -e mettersi a scrivere con il proposito di recuperare un’emozione, un fatto vissuto o semplicemente un’idea (e scrivere proprio di quella cosa) si rivela un’acrobazia impossibile. Essendo un altro momento, fluiscono in noi altre cose. Se nell’attimo di grazia non abbiamo in tasca un taccuino, non c’è altro da fare che metterci tranquilli senza tentare l’impossibile.

Questi sono alcuni dei problemi che lo scrittore zen non ha.

Egli può cominciare in qualsiasi momento a scrivere una nuova storia perchè l’inizio di cui non è assolutamente consapevole in anticipo gli si manifesterà davanti agli occhi non appena poggerà la penna sul foglio o inizierà a battere le prime parole sulla tastiera.

Ed ora vediamo un pò cosa viene fuori … questo è l’atteggiamento dello scrittore zen. E da cosa nasce cosa. Frase dopo frase. Paragrafo dopo paragrafo. Capitolo dopo capitolo.

L’abilità dello scrittore zen sta nell’assecondare le prime frasi lasciandole scorrere nella direzione che esse intendono prendere, senza forzarle. Non sarà lui a dirigere la narrazione, ma la creatività che si è sviluppata in lui dopo anni di esercizio.

Non appena arriveranno sulla scena il protagonista e gli altri personaggi, sarà fondamentale visualizzarli con l’occhio della mente e ascoltarli dal vivo mentre parlano, vivono, pensano. Saranno loro stessi a creare la storia nel “qui e ora” e lo scrittore zen si limiterà a trascriverla. Sembra magia, ma i personaggi hanno una loro autentica realtà che va rispettata.

Citazione da “Il mestiere dello scrittore” di John Gardner:

[…] è questa forse la cosa più fastidiosa della narrativa di cattiva qualità. Avvertiamo che i personaggi sono stati manipolati, costretti a fare cose che nella realtà non farebbero. Il cattivo scrittore può non avere l’intenzione di manipolare ma, semplicemente, non sa che cosa farebbero i suoi personaggi perché non li ha osservati abbastanza attentamente nella sua visione mentale […]

Scrivere un romanzo in modalità zen è sicuramente un metodo controcorrente rispetto a quanto viene insegnato nei corsi tradizionali di “creative writing”, che ha però il privilegio di generare storie inattese, originali, capaci di incuriosire lo scrittore stesso, e soprattutto ha il privilegio di generare storie sempre, in qualsiasi momento. Più la mente è vuota e rilassata, più la scrittura zen si fa efficace e il flusso creativo scorre senza impedimenti.

Ovviamente lo zen applicato a un romanzo richiede in via preliminare un allenamento costante e molta disciplina. Bisogna fare tantissimo esercizio, esercizio in sè; bisogna fare pratica e acquisire esperienza; bisogna riempire quaderni su quaderni prima di dire “oggi inizio un romanzo”.

Libri sulla scrittura zen:

Scrivere zen di Natalie Goldberg

Lo zen e l’arte di scrivere di Ray Bradbury

Scrivere zen e Satori creativo di Paola Farah Giorgi

Che la vostra vita di carta e penna possa essere illuminata!

Leggi anche SCRIVERE ZEN E SATORI CREATIVO

Foto di Victoria da Pixabay

Ryōkan, monaco zen

Ryōkan, monaco zen. Oggi ho deciso di raccontarvi qualcosa su di lui.

Lo “incontrai” un giorno d’inverno di tanto tempo fa. Stavo passeggiando in via XX Settembre insieme a un musicista conosciuto a “Musang Am”, il tempio della non-forma della comunità chan “Bodhidarma” di Lerici. Al termine della nostra passeggiata gli regalai il mio cappello grigio di pelliccetta sintetica (quello che appare indosso a un personaggio di un mio romanzo, non so più quale) e lui mi regalò un libricino giallo ocra: Poesie di Ryōkan, monaco dello zen – Edizioni La Vita Felice.

E fu così che questo eremita di montagna entrò nella mia vita.

Spesso ho utilizzato le sue poesie durante i miei corsi di scrittura zen perchè possiedono incipit meravigliosi che hanno il potere di trasferirci all’istante nell’autentico spirito del “qui e ora” e, soprattutto, in quella dimensione di semplicità essenziale/libertà interiore/compassione che tanto fa bene all’anima e alla scrittura. I passi amorevoli di Ryōkan incontrano i nostri passi che, sul foglio, si fanno più leggeri e contemplativi; la sua visione attrae la nostra visione e richiama immagini suggestive di tenerezza e di natura.

Daigū Ryōkan (1758-1831) è stato un monaco mendicante della tradizione Sōtō Zen, vissuto per trent’anni nell’eremo di Gogōan, sulle montagne.

Girava per i villaggi a chiedere elemosina e offriva poesie a tutti coloro che riempivano di cibo la sua ciotola. Il suo nome significa “grande pazzo, buono e generoso”. E per molti fu davvero il monaco pazzo, nel senso più amorevole del termine. Nella sua immediata spontaneità e frugalità di vita ha però composto in totale millequattrocento poesie in stile giapponese, quattrocentocinquanta in stile cinese, oltre cento haiku e un epistolario, suscitando ammirazione fra i più grandi scrittori e poeti giapponesi (e non solo).

Kawabata Yusunari lo ha ricordato e citato ben cinque volte nel discorso tenuto alla cerimonia per il Premio Nobel per la letteratura nel 1968.

È comunque opportuno fare un breve excursus dei passi che hanno condotto Ryōkan ai suoi anni più felici (quelli appunto dell’eremo di Gogōan) e all’autentica vita di monaco Zen mendicante.

A diciotto anni, il 18 luglio 1775, con una decisione improvvisa che meravigliò tutti entrò nel tempio Kōshōji di Amaze per farsi monaco. Il giorno precedente aveva bevuto sakè e danzato fino alle prime ore del mattino. Rimase però nel tempio Kōshōji per quattro anni come semplice laico, abituandosi alla stretta disciplina Zen senza che si verificasse in lui un vero cambiamento interiore.

Il passo successivo fu l’incontro con il suo vero Maestro, Kokusen Dainin, giunto nel tempio per alcune conferenze. Ryōkan decise subito di seguirlo a Entsūji, affrontando con lui un viaggio di due mesi. Qui iniziarono i suoi dodici anni come novizio, fatti di meditazione, questua, colloquio quotidiano con il Maestro, recita dei Sutra e lavoro manuale dalle tre del mattino alle nove di sera. In questo modo realizzò il lento processo di purificazione che porta alla “Grande Morte”, ovvero alla caduta dell’Io, alla rinascita spirituale e alla completa libertà interiore. All’età di trentatrè anni, ricevette da Kokusen Dainin il certificato che lo rese idoneo a insegnare lo Zen e a prendere possesso di un tempio.

A Ryokan, buono e pazzo, che cammina nella Via liberamente, senza intralci, difficile seguirlo, consegno questo certificato assieme al bastone di legno. Dovunque vada troverà pace, come se fosse a casa sua.

Nonostante il certificato, Ryōkan decise di essere un monaco itinerante, senza una famiglia, senza un tempio e senza discepoli. E iniziò un pellegrinaggio durato cinque anni per varie regioni e santuari del Giappone, finchè decise di trovarsi un luogo adatto in cui fermarsi a vivere secondo la sua indole. La ricerca durò altri otto anni, finchè giunse all’eremo di Gogōan (1804) sul monte Kugami.

Sotto i boschi del monte Kugami vivo in pace: unico compagno un nodoso bastone. Dal giorno della mia venuta in questo luogo sono trascorsi molti anni. Quando sono stanco, mi riposo; quando sto bene, metto i sandali e cammino. Non mi curo delle lodi degli altri, non mi lamento del loro disprezzo. Con questo corpo, ricevuto dai genitori, mi abbandono al mio destino, gioiosamente.

A sessant’anni, quando non riuscì più a sopportare il freddo invernale nel suo eremo, decise di scendere dalla montagna e di sistemarsi in un piccolo alloggio nel recinto del tempio scintoista di Otogo. Qui ebbe l’opportunità di scambiare poesie e di dare consigli ai giovani che lo andavano a trovare. Ebbe soltanto un discepolo, nel senso tradizionale buddista, ma in tanti lo presero come confidente di vita e di poesia.

Da ragazzo ho studiato letteratura, ma non sono diventato maestro; da giovane ho praticato lo Zen, ma non ho trasmesso la lampada.

Sconforto? Forse sì. Oltre lo Zen, anche in Ryōkan emerge ciò che è naturale in ogni essere umano: la fragilità. Ed ecco una mano che si avvicina, un’affinità d’anima. Il conforto della vecchiaia di Ryōkan è una giovane monaca, Teishin, che era andata a fargli visita dopo aver letto alcune sue poesie. Tra loro nacque una profonda amicizia.

Teishin ha ventinove anni. Il suo nome significa “monaca dal cuore puro”. Durante la sua vita scrisse una raccolta di trecentosettantacinque poesie dal titolo “Rugiada sul fiore di Loto”, in cui sono inserite anche le quarantotto poesie che Ryōkan le dedicò dal giorno del primo incontro a quello della sua morte. Quanto sarebbe bello scrivere un romanzo su questo inaspettato amore!

I passi del monaco mendicante Ryōkan non avrebbero potuto concludersi meglio. Lasciò questo mondo serenamente il 6 gennaio 1831, all’ora del tramonto.

Quando, quando? ho gridato. Ciò che ho desiderato per lungo tempo è finalmente arrivato. Con Lei, ora ho tutto ciò di cui ho bisogno. Teishin

Quando verrà? Mi chiedevo nell’attesa. Ora che è venuta, non aspetto altro. Ryōkan

Foto di Trung Phan da Pixabay

Scrivere zen e Satori creativo

Scrivere zen e Satori creativo è il libro scritto a conclusione dei corsi di scrittura zen che ho tenuto a Genova nel periodo 2017-2023. Ho voluto condensare in questo manuale discorsivo gran parte delle mie lezioni, seppure in modo sintetico, anticipando un’apertura verso una diversa modalità di essere scrittrice: meno pubblica (zero presentazioni e nessuna partecipazione a eventi culturali) e più intima e solitaria. A livello di marketing: del tutto invisibile.

La sfida che ogni volta mi appaga è quella di spargere le mie pagine qua e là, come fossero mangime per pennuti o briciole per formichine, nella consapevolezza che in generale non desteranno alcun interesse né curiosità e, nello stesso tempo, con la certezza che almeno una persona al mondo ne avrà beneficio. Mi piace pensare così.

Più lo scrittore è invisibile, più il libro riesce a respirare e volare verso il suo lettore. Se il lettore sarà più di uno, ancora meglio. Che ognuno di loro possa ottenere felicità dalla lettura.

Alla ruota del pavone (che al pavone uccello sta comunque benissimo) preferisco la ruota del Dharma e la ruota della Preghiera.

Scrivere zen e Satori creativo è un manuale che ripercorre i cinque grandi temi ai quali ho dedicato le mie lezioni, con l’intento di costituire per gli aspiranti scrittori (e per tutti coloro che hanno una semplice propensione alla scrittura) un primo giro di cerchio sull’argomento vastissimo e ineffabile del processo creativo applicato alla narrativa.

Ecco le cinque parti in cui il manuale è suddiviso: Scrivere zen (la scrittura come pratica di meditazione), Scrivere non è un hamburger (nozioni tecniche di scrittura creativa), Grandi autori sulla scrittura (discorsi e saggi su letteratura, scrittura e creatività), Immaginazione e visione (osservare l’invisibile), Il Satori creativo (un diverso registro).

Lo diciamo subito: scrivere è molto più che scrivere. Può dare inizio a un percorso interiore di consapevolezza, può generare rilassamento e placare la mente, può condurre a una nuova visione della vita e del proprio essere quotidiano ma, affinché sia possibile, è fondamentale non pensare a nulla di tutto ciò e limitarsi a scrivere: scrivere e basta. Come nella meditazione, essere nel “qui e ora” è l’anima del metodo, la capocchia di spillo più preziosa che esista. Prendetelo per mano, lo spillo del “qui e ora”, e consideratelo sempre la vostra guida.

Che la vostra vita di carta e penna possa essere illuminata!

PAOLA FARAH GIORGI LIBRI

Zero Candido: tutto iniziò in piazza Valoria

Zero Candido: tutto iniziò in piazza Valoria. Perchè?

A volte capita di incontrare luoghi e situazioni che identifichi come “inizio di un romanzo” senza sapere nè il perchè nè a quale storia ti condurranno. Le sensazioni dell’attimo presente e le percezioni più sottili che da esso scaturiscono si trasformano immediatamente in parole nella tua testa: è un primo capitolo, ne sei sicura, e poi chissà. Tiri fuori dalla tasca carta e penna e scrivi. Scrivi e basta. Cosa ne uscirà non importa saperlo. La scrittura zen è/deve essere “senza destinazione”, come dice Natalie Goldberg.

Dunque, tutto iniziò in piazza Valoria. La conoscete?

A Genova, risalendo via San Lorenzo, più o meno all’altezza della Cattedrale si imbocca un vicolo a destra. L’indicazione è quella di una piccola e graziosa libreria: Bookowsky – libri usati e nuovi.

Un giorno m’intrufolai in questa piazzetta e, in quell’attimo, un tavolino esposto davanti alla libreria e un concertino gospel piantarono nella mia immaginazione il primo seme.

“Zero Candido” iniziò a prendere vita su un foglio vergine. Alla libraia di Bookowsky si sovrappose in modo spontaneo il volto di Sarah, personaggio di un mio precedente romanzo – “Guimauve” – e fu un secondo seme che, all’istante, iniziò a germogliare.

Dopo questa premessa, sappiate che incontrerete a breve l’inizio del romanzo. Voglio utilizzare questo blog come una panchina. Immaginate di essere stanchi e di avere appena deciso di riposarvi un pò; sulla panchina in un parco trovate un foglio abbandonato: sembra la pagina di un libro, certo, ma senza il nome dell’autore nè alcun titolo. Siete incuriositi e iniziate a leggere. Al posto del foglio avreste potuto trovare un abito bianco ben ripiegato o un pezzo di lapide con scritto LOVE. Nell’aria c’è profumo di caprifoglio e un pulviscolo strano: sembra zucchero a velo e va quasi alla testa…

Una goccia d’acqua e tutto sarebbe diverso, ma il sole non piove. Con sagacia imbocca un illogico percorso fra i vicoli che gli consente di essere presente ovunque. Si introduce dall’alto e si frammenta: mimesi dell’anima, linguaggio scenico, forme geometriche incollate ai muri. Un abile architetto potrebbe acchiapparle allungando le braccia, metterle in piano una accanto all’altra e consentire alle persone di sdraiarsi su un tappeto luminoso. Sono invece le persone stesse che allungano le braccia senza riuscire ad acchiapparle. Non hanno dimestichezza con le geometrie né con le altezze. Ma il sole le abbraccia lo stesso, concentrato nei suoi tasselli quadrati, rettangolari, romboidali, e va bene così. Sono a destra e a sinistra, fra pantaloni stesi e tapparelle socchiuse, fra scogli di erba miseria e gerani ricadenti. Mi guardo attorno e penso al filo d’orizzonte di Tabucchi, che sempre mi si avvicina, mi cattura e spesso mi fa inciampare, e penso a Cortazar, al suo gioco del mondo, e penso a Esher, alle sue costruzioni impossibili e alla coesistenza di situazioni diverse nello stesso spazio, forse lo spazio di un romanzo o quello di una scatola. L’immaginazione e le parole si espandono e i pensieri si mischiano per dare vita a qualcosa. Qualcosa cosa? Non lo so. Devo scrivere, lasciarmi trasportare dall’immediatezza confusa che mi ronza in testa o perderò tutto, ma non ho un taccuino con me, non lo porto mai dietro, è un mio difetto. A questo punto, l’udito e la convinzione che nella vita sia necessario ingerire ogni stimolo sensoriale che si presenta mi salvano dall’ansia. Mi sporgo e ascolto. È un coro gospel, non c’è dubbio, e la sacralità del pentagramma mi distoglie dall’assenza di taccuino. Mi addentro in vico Valoria sino alla piazzetta e li vedo. Sono in sei, due uomini e quattro donne. Indossano magliette bianche con una scritta che da lontano non riesco a leggere. Nessuna tunica e nessun leggìo, l’abbigliamento è casual. Hanno voci che si armonizzano una nell’altra e sbucano dalle note come fiori. Le vedo sbocciare e sento profumo di caprifoglio, uno spasimo che mi solleva le narici e mi eccita la pelle. È un brivido. Caprifoglio? mi chiedo. Profumo di caprifoglio qui in città? […]

Il profumo di caprifoglio tornerà più volte nel corso del libro. Anch’esso è finito nelle pagine per caso – un nome di fiore come un altro, uscito dalla penna nel “qui e ora” – e soltanto in seguito si è dischiuso alla simbologia floreale come rappresentante del legame d’amore, argomento che nella trama di “Zero Candido” ha una sua ben precisa collocazione e funzione.

Ma torniamo a piazza Valoria. Dicono che il nome sia una derivazione di “valauri”, i campanari della Cattedrale di Genova che avevano qui le loro abitazioni. Un’altra curiosità riguarda i garibaldini, perchè al n. 4 della piazza aveva il suo atelier fotografico Alessandro Pavia (1824-1889), il fotografo che li immortalò uno a uno e che, all’indomani della spedizione dei Mille con partenza da Quarto, decise di realizzare un album con i loro ritratti.

I primi semi di “Zero Candido” sono quindi germogliati in un luogo non anonimo. Bellissimo e suggestivo è anche Palazzo Sopranis, XVI secolo, con la sua facciata affrescata nelle tonalità calde del sole e degli agrumi. I Sopranis erano una famiglia nobiliare genovese di mercanti di frutta e verdura. Nel palazzo a fianco, palazzo Crosa Vergagni, è invece incastonata un’edicola votiva col dipinto di una Madonna con bambino. Nell’epigrafe: Mater pietatis ora pro nobis.

Ecco, tutto iniziò quel giorno in piazza Valoria, che presto si trasfigurò in luogo di partenza di un viaggio interiore, perchè “Zero Candido” è essenzialmente questo: una partenza, un andare oltre, un ritornare. Sarah, la libraia, già protagonista di “Guimauve” , esprime il desiderio di partire e affida la sua libreria in piazzetta a un’amica, Marta, disponibile a tenere aperto almeno due, tre giorni la settimana e forse anche di più.

Immaginate ora di trovare un altro foglio su un’altra panchina, abbandonato e misterioso come il precedente. Ancora una volta non c’è traccia di chi l’abbia scritto e a quale romanzo appartenga (ma è chiaro che appartiene anch’esso a un romanzo).

[…] Ogni vicolo gode della particolare luce del primo mattino, filtrata dal vapore d’acqua che si alza dai lastroni di pietra appena lavati. I loro passi sono concitati. Il rumore delle rotelle della valigia rimbomba eccessivo mentre portoncini si aprono e altri si chiudono. Qualcuno esce a scheggia, a testa bassa, bisogna fare attenzione. Cani e padroni dei cani sono l’umanità prevalente e ogni cane ha le sue preferenze per fare i bisogni. «Domani ti chiamo quando posso, non so ancora cosa succederà.» «Non sei obbligata a chiamarmi, Sarah. Se non ti sento, vorrà dire che è tutto a posto. Io ti chiamo solo per la libreria, se mi troverò nelle canne con qualche cliente. Pessoa? Dove trovo Pessoa? Guardi lassù, deve essere vicino al soffitto. Ha la scala? Come faccio ad arrivare al soffitto? Non si preoccupi. Sulla scala salgo io che lei non può rischiare di cadere. Salgo e Pessoa non c’è. Allora ti chiamo e ti chiedo dove hai messo Pessoa. E tu mi dici che Pessoa forse è finito. L’ultimo Pessoa lo hai venduto la settimana scorsa. Io dico al cliente che Pessoa è finito e di ripassare tra qualche giorno che me lo procuro. Mi lascia il numero di telefono per essere avvertito e mi accorgo che è un tipo interessante.» «Può succedere, Marta, magari ti capita il filosofo, lo psichiatra o l’astrofisico.» «Mi stai prendendo in giro?» «E perché dovrei? È gente che legge e che bazzica le librerie.»

Tutto iniziò quel giorno in piazza Valoria. Era il 21 maggio 2022 e il Centro Storico ospitava la Genova BeDesign Week. Per questo motivo io ero a gironzolare per vicoli e palazzi antichi allestiti per l’occasione; per lo stesso motivo in piazzetta Valoria cantava un piccolo coro gospel: i Double Trust Choir. Erano vestiti di nero, ma per esigenze narrative si sono ritrovati vestiti di bianco ed immersi nel profumo di caprifoglio. Forse non lo sapranno mai. In loro rimarrà solo il ricordo di aver cantato un giorno in una suggestiva piazzetta di Genova. Era maggio, e passava di lì una scrittrice zen.

PAOLA FARAH GIORGI LIBRI

ZERO CANDIDO BOOKTRAILER